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Sunday 14 October 2012

Sai che c’è? che oggi ti senti a pezzi, e domani pure, c’è che la vita ti tiene stretta la gola e non  ti fa respirare, c’è che tutti i tuoi pensieri e tutti i tuoi ricordi ti uccidono dall’interno, gli occhi che hai guardato, quelli che ti hanno fatto soffrire, le bocche che ti hanno parlato, quelle che ti hanno distrutto il cuore, perchè ti sentivi fragile e gli altri ti colpivano, la mente è debole e si porta dietro quelle ombre maledette, quelle immagini tristi che non avresti mai voluto vedere.

Sai che c’è? che ora il cammino del tuo cuore è rallentato dall’odio e dalla delusione, non credi più a nulla, non parli con le persone, non senti più il bisogno di reagire, la forza di amare e capire, che, quello che hai intorno potrebbe essere migliore, c’è che ora le lacrime sono nere, che lo stomaco si stringe, e che il respiro non esiste, immaginavi una vita diversa, ma ti trovi davanti ad un dipinto che con te, non centra nulla, e tocchi con le tue mani quei colori ormai sporchi, privi di significato, senza profumo, senza luce, chiedendoti nella mente del perchè tu vivi qui ora, e non capisci dove siano finiti i tuoi sogni, i tuoi amori, i tuoi obiettivi, mentre senti questo peso, dietro di te si chiude la porta della vita, rimanendo in questa stanza buia, senza carezze, senza baci, senza amore, perchè la vita ha voluto portartele via, insieme al tuo coraggio.

Sai invece che c’è ora? per davvero? la forza che spingerà il tuo cuore ad essere felice, non lasciare che queste ombre nella tua mente ostacolinò il suo cammino, continua a guardare quel quadro sporco e scuro, ora, con il battito del tuo cuore, con la mia mano poggiata sul tuo petto, mentre lentamente acarezzo il tuo viso, tenta di ricolorare quei luoghi, quei colori che ormai sbiaditi nella tua mente, distruggono la tua anima, ora, con il battito del tuo cuore, e con la gomma del mio amore, cancella quei falsi sguardi, quelle situazioni orribili, cancella quello che ti stà intorno, quelle voci bastarde, quelle sensazioni pesanti, che stringono lo stomaco la notte, cancella, i profumi che ora puzzano e quei cieli vuoti e insignificanti.

Ora quel quadro che hai davanti, deve essere libero di essere ridisegnato da zero, perchè tu sei l’unico essere in grado di disegnare la tua vita, senza lacrime, senza tristezza, perchè il cammino del tuo cuore deve essere circondato da aria fresca, nuova, senza pensieri negativi, senza quella voglia di silenzio e solitudine, la forza che è dentro di te, darà il potere ai tuoi battiti di volare sempre più in alto, evitando di cadere, evitando di strisciare, e sentire il profumo del tuo sangue che muove il tuo corpo e permette al tuo cuore di camminare, fino all’ultima goccia, e quando avrai pieno potere di questo cammino a testa alta, quei sorrisi falsi insieme a quegli sguardi moriranno soffocati con il tuo passato, e terrorizati da te si allontaneranno, per sempre…

Sunday 2 September 2012

Partire, tornare...

"E così alla fine tutti tornano perché riemerge la nostalgia dell’inizio. Tornano quando non ce n’è più bisogno, quando il sole di mezzogiorno ha ormai asciugato l’acqua sulla sabbia del mare, al tramonto. Quando il vento, anziché bussare lieve, spacca i vetri, la notte. Quando è inesorabilmente tardi. Un attimo dopo che ci si è abituati all’assenza, come la luce accesa alle sette del mattino, la felicità che va a giocare d’azzardo e perde tutto per strada. Le persone dovresti amarle quando il loro cuore ne ha il desiderio, e non quando conviene. E se proprio non ce la fai, se non puoi ricambiare questo desiderio, se non le puoi amare, devi lasciarle in pace. Se non si è stati in grado di restare al momento giusto non si deve inventare un momento giusto per tornare. Non si scippano sorrisi in ritardo. Le curve dei sorrisi fanno girare la testa all’amore, quelle dell’arcobaleno incantano l’anima della pioggia fermandola, ma ciò che di prezioso è ignorato si dilegua alla svelta. In un’altra vita ti dissi che a volte il vero coraggio è quello di restare e non quello di andare. Oggi ti dico che c’è sempre un motivo valido per andare, come per restare. E’ la parte che prevale che fa la differenza. Quando te ne vai, però, anche se non lo sai, senza sprecare inutili parole, fai una promessa silenziosa. La promessa che siccome hai scelto di andartene non tornerai."



di Massimo



Thursday 9 August 2012

H (O. P.) E

Misto di felicità e paura che si prova solo di fronte alle cose … GRANDI. Magnifiche quanto mastodontiche.
 
Ricordo quando, al secondo anno, avevo abbozzato a mio papà all’interno del mio interesse per la pediatria, così, dal nulla, una sorta di “ispirazione” per l’oncologia pediatrica. In realtà non era sorto proprio dal nulla come ho appena detto: durante il mio (entusiasmante) tirocinio in clinica pediatrica, ricordo un giorno in cui, fin dal mattino, si annunciava l’arrivo di un piccolo seguito dall’oncologia pediatrica, che sarebbe venuto per una manciata d’ore in reparto, pochi accertamenti, nulla di che.
Mi incuriosiva parecchio vedere questo abitante del misterioso mondo situato qualche piano di sopra, un giardino dai cancelli invalicabili, per proteggere i suoi piccoli, deboli fiori. Così, a inizio giornata buttavo l’occhio nelle stanze per scorgere un nuovo viso, o con qualche scusa uscivo in corridoio per vedere se fosse arrivato proprio in quel momento. Niente. Forse si erano sbagliati. Forse era andato nel suo invalicabile reparto e avevano chiamato di sopra il medico. Presa dalle turbinanti attività della giornata, avevo finito per scordarmene. Verso ora di pranzo, vado in Sala Giochi, per portare la “pozione magica” a una bimba fuggita dalla stanza per guardare i cartoni. Ed eccolo là, con la sua testina bianca, scoperta, mille mila tubetti e l’inseparabile treppiedi a misura di bimbo, gli occhi un po’ infossati nel faccino pallido.  Sembrava un bambino venuto in visita da un altro pianeta, un piccolo principe. Non provai tristezza o particolare compassione ( lì tutti ne avevano una per vincere tubi e tubetti, mascherine e bomboline, garze e fascettine, amici treppiedi), e il suo sorriso, mentre stringeva il telecomando bianco della Wii, suscitava piuttosto una commossa tenerezza. Chissà se ora sta meglio.
La reazione di mio papà, che sempre davanti alla parola “tumore” od “oncologia” si incupisce come se lo si invitasse al funerale, fu sorprendentemente di stupore. Lessi questa reazione come un “Ne ha trovata un’altra da sparare oggi”. Invece, quando gli annunciai l’inizio della frequenza del reparto di chirurgia generale, la memoria estremamente selettiva per le informazioni importanti gli fece dire: “Ma tu non dovevi fare oncologia pediatrica???” No… O forse si. 
E’ quel timido “forse”, che vuole smorzare emotività, responsabilità e una marea di domande, che mi porta, qualche anno dopo, davanti al cancello invalicabile del giardino segreto.
Su tutte e tre le porte c’è una grande stampa, intimorente, VIETATO L’ACCESSO: so bene quanto sia difficile entrare in una specialistica di pediatria, media impeccabile, curriculum splendente, e ancora non basta. Io non sono questa persona eccezionale da poter essere un aspirante candidata all’entrata in specialistica. Essere eccezionali significa rinunciare a tutto tranne un’unica cosa, assoluta. E io sono fatta di infinite cose, mi è molto difficile, se non impossibile, essere eccezionale.
 
Mentre osservo la porta, scoraggiata, cercando di decidermi sul da farsi, esce una signora bionda e il suo bambino, dieci anni forse: abbronzato, è stato al mare. Capelli biondi. Un bellissimo bambino, che forse gioca a calcio, è bravo in matematica, ha un gatto che si chiama Dado … e un accesso a metà del braccio. Guardo ora la signora, ora la porta, come un cane educato che deve uscire immediatamente per bisogni personali. La signora mi guarda in modo interrogativo, non penso siano molti i ragazzi che fanno una siesta su quel pianerottolo. Così le chiedo: “C’è un'altra strada per andar dentro?”  c’è una scorciatoia?ci sono vie alternative per superare questo blocco? Sono quasi sicura mi stia per indicare una strada intricata o un campanello nascosto per suonare a un’infermiera che non aprirà mai. E invece è molto semplice: si passa di là. Basta non girare a sinistra ed andare nella sala giochi. Chi stai cercando? Il primario. Allora aspetta in sala giochi, là qualcuno verrà, prima o dopo.  Magari il primario stesso. La sala giochi è disordinata, ci sono tremila foglietti, disegni e cartelloni appesi, abbastanza per scacciare la noia attendendo che qualcuno passi di là…invece ne guardo a malapena uno che la signora, la mia Beatrice, entra di nuovo e mi indica una porta: “Quello è il suo studio, prova a bussare!”

Ed eccomi con un primario che se la ridacchia, perché sedendomi ho sbattuto contro la sua scrivania facendomi un male cane, con tanta curiosità quanto incoraggiamento verso questa mia “presa di posizione”, questo tentativo che faccio nel capire cosa sono e voglio essere. Vedo stanchezza nei suoi occhi, e la tenerezza di un nonno, alla fine della professione, che vede chi si affaccia appena a tutto il mondo che lui ben conosce. La media? Claudicante. Gli esami? Mi mancano i più importanti. Tesi? Boh, con calma.
L’ho detto sopra: non sono la studentessa brillantemodelloinvincibile. Ma non importa, sorride, si alza “Ti faccio vedere il reparto?” Scusi, non ho capito. Il reparto? La zona a sinistra, l’ala ovest della Bella e la Bestia?!!! Certo che voglio!!! Mi alzo a molla e prendo un’altra botta, sullo stesso posto della gamba e sullo stesso stipite di prima. Lui per fortuna non vede e non sente il mio ri-ouch.
Un’infermiera riccia esce da una stanza, saluto, e la ritroviamo poco dopo. Mi presenta, e lei non sa che faccia fare di fronte a una tirocinante volontaria: “La bruciamo fin da subito!” Dice in tono scherzoso ma non troppo al primario. Io abbozzo un sorriso comprensivo della sua perplessità, che è sicuramente quella di molti, di fronte alla mia volontà di cacciarmi nel reparto in cui la sofferenza dei bambini è ritenuta massima, dove muore chi meno dovrebbe, dove forse più si mette in discussione l’esistenza e la bontà di Dio, dove il coinvolgimento emotivo e la tristezza sembrano essere massimi. Che motivo ha un bambino innocente, candido, di ammalarsi di un male tremendo, vedere gli anni in cui dovrebbe danzare leggero come una farfalla costretto a letto, lottando per sopravvivere, quando invece la vita dentro di lui dovrebbe scoppiare come una stella che nasce? Come tollerare questo?
Il discorso qui si fa complesso. Ed è il motivo per cui ho solo sorriso all’infermiera e lo spiego solo se mi viene chiesto insistentemente: comunemente, si dà per scontato che la sofferenza si unica, universale, si spenda per tutti e allo stesso modo solo di fronte a talune scene, a certe situazioni “convenzionate”. Ma non tutti piangono o soffrono allo stesso modo di fronte alle immagini al tg di una guerra in Medio Oriente: il mio vicino di casa, che aveva combattuto la Seconda Guerra mondiale e era stato fatto prigioniero, non ne tollerava la vista e si allontanava dalla tv. Non tutti soffrono allo stesso modo vedendo un gatto investito per strada: chi non ne ha mai avuto uno, o non ama gli animali, può sentirsi meno coinvolto. Non tutti abbiamo le stesse esperienze di vita e la stessa sensibilità. Fortunatamente.
Io, personalmente, soffrirei molto di più in un reparto in cui sono ricoverati da chissà quanto dei poveri vecchietti, affetti da mille mila malattie, che si peggiorano l’una con l’altra, la lista di farmaci sulla cartella è infinita, e i dosaggi rivisti e riequilibrati anche più volte al giorno. E’ un vecchietto che spesso non sa più mangiare, da tempo convive con i suoi escrementi finchè qualche buon anima non gli cambia il pannolone, non può uscire a controllare l’orto o comprarsi il giornale, e ogni giorno in più che vive è un amaro confronto con i bei tempi andati e un’altra manciata d’ore che gli vengono date, in qualche modo, per fare … cosa? Soffrire? Sonnecchiare senza dignità, aspettando la fine del giorno, o dei giorni? Alcuni nemmeno si rendono conto di ESISTERE, la loro VITA li ha lasciati da tempo. Sono parenti, figli, e leggi confuse o del tutto inesistenti che nessuno si prende la briga di chiarire, che impediscono li lasciare queste persone al corso naturale degli eventi. L’incapacità del nostro mondo, della nostra epoca di definire cosa sia la vita, il declamare quanto sia importante e divina, per poi calpestarla nella sua essenza più vera. Cos’è la vita? Una valanga di giorni o un singolo sole inghiottito dal mare,  visto abbracciata alle colonne di un tempio greco? Uno sterminio di pioggie o un solo feroce temporale, che ti coglie nella foresta? Infiniti sonni o un’unica notte, con un cielo infinito disseminato di stelle splendenti?
Questi bambini sono come i fiori che si seminano in primavera. A volte si becca una stagione perfetta e crescono rigogliosi, profumatissimi e coloratissimi, uno spettacolo e una gioia per gli occhi. Altre volte capita un’inaspettata gelata, un fastidioso pidocchio, e la piantina china i suoi germogli, e si retrae. Ma contiene ancora in sé il potenziale fiore esplosivo e bellissimo, occorre curarla più delle altre, con prodotti specifici, e sperare che si riprenda. Poi darà il fiore più bello di tutti. E quando verrà l’inverno, saluterò il fiore, che a poco a poco appassirà, e per ogni petalo lo ringrazierò per essere stato così bello in estate.
Invece sembra che la tendenza sia di preservare il fiore durante l’inverno, contro natura, questo sarà raggrinzito, col capo chino, pallidi i petali e le foglie ingiallite, brutto, penoso. Ma non importa, basta avere il fiore nel vaso, d’inverno. Il fiore non tornerà alla primavera, perché tanto accanimento?
 
Attenzione, non fraintendetemi: non sto dicendo che i vecchietti vanno lasciati morire e che il medico interno è un lavoro insensato. Anzi. Ho grande stima di queste persone che accompagnano i nostri, sempre più numerosi nonni, proprio perché io non lo saprei fare: soffrirei e mi sentirei inadeguata, insoddisfatta.  Nel lavoro pediatrico trovo più motivazione e più grinta, vedo un valido motivo dove impegnare le mie energie e le mie speranze, sento che è in questo campo che c’è bisogno di me, senza nessun intento caritatevole, se non quello di fare quanto possibile e il meglio che il mio “lavoro” (le vecchiette mi dicono sempre “no l’è un lavoro l’è una mission!!! …. Quanta saggezza!) mi permette.
Sorrido all’infermiera, messa un po’ in subbuglio dalla mia presenza: è un sorriso che vuol dire “ sono già a mio agio”.
"Riempitevi di speranza, voi che entrate", significa quel grande divieto di accesso alla porta.

La speranza è come una bolla di sapone. Sii delicato, non stringerla troppo, potrebbe rompersi.

Sunday 5 August 2012

Come una tartaruga.

Pffffffffui! Eccomi qua, di ritorno dalla scampagnata in Spagna, nemmeno 24 ore per tastare con i piedi per terra, respirare, stropicciare gli occhi e dire “Urca, sono di nuovo in Italia!” che già sono con la testa, anzi, con il corpo perché quella sta ancora a Barcellona, nella mia routine, a pulire casa, svuotare la lavatrice in valigia, tutto con uno stuolo di appunti disseminato per tutta la casa e qualche libro qua e là che fa da pietra miliare nella mio tornado di cose da fare.


"Matter of time" Ione Momo, Deviantart
Non ho tempo. E alzi la mano chi ne ha. Che se le prende da tutti gli altri!

Quante volte dico che sono così tanto impegnata da non riuscire a fare una telefonata ad un amico, da non poter andare a vedere la mostra del mio pittore preferito, sentire un concerto, vedere un film con gli amici. RIMANDARE. Accumulare cose e cose da fare per poi rendersi conto di averne accumulate così tante che alcune sono perse… e su altre siamo oramai fuori tempo massimo.


Le attenuanti che ci diamo? E beh… ho sempre uno stuolo di esami e quando non ci sono quelli la palla passa a lezioni e tirocini, una  carriera da dover percorrere, la posizione sociale, tutte le bollette da pagare e quando e se si riesce anche il lavoretto a tempo perso per fruttare due soldini… E dato che so di essere in buona compagnia, si sa, mal comune mezzo gaudio, questa è l’attenuante più forte di tutte, tutti abbiamo la comprensione di tutti perché tutti abbiamo lo stesso problema. A cui si dovrebbe, in quanto problema, almeno abbozzare una soluzione.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un pensiero di Pema Chodron, una monaca buddista. E’ il primo incontro che  ho con questa donna, ma mi ha molto colpito, per la sua semplicità e leggerezza quanto per la verità forte quanto una pietra scagliata. Credo sia utile per tutti riportare il suo pensiero in questo post.
Eccolo:

” Se sapessimo di diventare ciechi la prossima notte, dedicheremmo gli ultimi sguardi a ogni filo d’ erba, ogni goccia d’ acqua, ogni grano di polvere, …ogni cosa”.

E se ogni tanto ci fermassimo a rileggere questa frase? Se ce la scrivessimo, come ho fatto tante volte con dei pensieri trovati nei libri o scritti in giornata da qualche amico di face book, che appuntavo su un foglietto sgualcito nel portafoglio, e che ogni tanto, quando sono giù di morale tiro fuori e vado a rileggere?
Il tempo non è infinito. Ce ne è stata consegnata, regalata… forse, e credo che per quanto sto vivendo, sia più proprio dire “affidata” una certa  quantità: nessuno di noi sa quanta! E ogni giorno  che passa la nostra dotazione di tempo diminuisce… si esaurisce.

So bene cosa significa vivere, studiare, lavorare, e cercare di incastrare passioni e amicizie, so bene cosa sia il vortice dei ritmi feroci e soffocanti che trascina appena molliamo la presa.
Ogni tanto però perchè non ci prendiamo una pausa? Che può voler dire anche solo RALLENTARE senza fermarsi, come una tartaruga.  Respirare a fondo un profumo. Assaporare il calore del sole, come un bacio. Osservare, guardare … Così sdraiati a faccia in su  a guardare il cielo, le nuvole che corrono, forse anche loro con un vortice di pensieri, senza dover arrivare alla “comune meta finale” e non aver mai  davvero guardato le stelle  come la tartaruga di Trilussa … mica uno a caso!

Mentre, una notte, se n’annava a spasso,
la vecchia tartaruga fece er passo
più lungo de la gamba e cascò giù
co’ la casa vortata sottinsù.
Un rospo je strillò: Scema che sei !
Queste so’ scappatelle
Che costeno la pelle…
Lo so -rispose lei -
Ma prima de morì vedo le stelle!

Bellissima!!!!!!
La vita è nostra, ci dice la tartarughina: siamo noi a doverne governare le redini, gestire ogni granello della sabbia che scorre nella nostra clessidra nel migliore dei modi. “Migliore” a seconda del NOSTRO giudizio, non dell’altrui o di imposizioni sociali o comunque a noi esterne: il dovere, a volte, è una scelta di comodità, per non attribuirci la responsabilità di aver sprecato del tempo.