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Thursday 9 August 2012

H (O. P.) E

Misto di felicità e paura che si prova solo di fronte alle cose … GRANDI. Magnifiche quanto mastodontiche.
 
Ricordo quando, al secondo anno, avevo abbozzato a mio papà all’interno del mio interesse per la pediatria, così, dal nulla, una sorta di “ispirazione” per l’oncologia pediatrica. In realtà non era sorto proprio dal nulla come ho appena detto: durante il mio (entusiasmante) tirocinio in clinica pediatrica, ricordo un giorno in cui, fin dal mattino, si annunciava l’arrivo di un piccolo seguito dall’oncologia pediatrica, che sarebbe venuto per una manciata d’ore in reparto, pochi accertamenti, nulla di che.
Mi incuriosiva parecchio vedere questo abitante del misterioso mondo situato qualche piano di sopra, un giardino dai cancelli invalicabili, per proteggere i suoi piccoli, deboli fiori. Così, a inizio giornata buttavo l’occhio nelle stanze per scorgere un nuovo viso, o con qualche scusa uscivo in corridoio per vedere se fosse arrivato proprio in quel momento. Niente. Forse si erano sbagliati. Forse era andato nel suo invalicabile reparto e avevano chiamato di sopra il medico. Presa dalle turbinanti attività della giornata, avevo finito per scordarmene. Verso ora di pranzo, vado in Sala Giochi, per portare la “pozione magica” a una bimba fuggita dalla stanza per guardare i cartoni. Ed eccolo là, con la sua testina bianca, scoperta, mille mila tubetti e l’inseparabile treppiedi a misura di bimbo, gli occhi un po’ infossati nel faccino pallido.  Sembrava un bambino venuto in visita da un altro pianeta, un piccolo principe. Non provai tristezza o particolare compassione ( lì tutti ne avevano una per vincere tubi e tubetti, mascherine e bomboline, garze e fascettine, amici treppiedi), e il suo sorriso, mentre stringeva il telecomando bianco della Wii, suscitava piuttosto una commossa tenerezza. Chissà se ora sta meglio.
La reazione di mio papà, che sempre davanti alla parola “tumore” od “oncologia” si incupisce come se lo si invitasse al funerale, fu sorprendentemente di stupore. Lessi questa reazione come un “Ne ha trovata un’altra da sparare oggi”. Invece, quando gli annunciai l’inizio della frequenza del reparto di chirurgia generale, la memoria estremamente selettiva per le informazioni importanti gli fece dire: “Ma tu non dovevi fare oncologia pediatrica???” No… O forse si. 
E’ quel timido “forse”, che vuole smorzare emotività, responsabilità e una marea di domande, che mi porta, qualche anno dopo, davanti al cancello invalicabile del giardino segreto.
Su tutte e tre le porte c’è una grande stampa, intimorente, VIETATO L’ACCESSO: so bene quanto sia difficile entrare in una specialistica di pediatria, media impeccabile, curriculum splendente, e ancora non basta. Io non sono questa persona eccezionale da poter essere un aspirante candidata all’entrata in specialistica. Essere eccezionali significa rinunciare a tutto tranne un’unica cosa, assoluta. E io sono fatta di infinite cose, mi è molto difficile, se non impossibile, essere eccezionale.
 
Mentre osservo la porta, scoraggiata, cercando di decidermi sul da farsi, esce una signora bionda e il suo bambino, dieci anni forse: abbronzato, è stato al mare. Capelli biondi. Un bellissimo bambino, che forse gioca a calcio, è bravo in matematica, ha un gatto che si chiama Dado … e un accesso a metà del braccio. Guardo ora la signora, ora la porta, come un cane educato che deve uscire immediatamente per bisogni personali. La signora mi guarda in modo interrogativo, non penso siano molti i ragazzi che fanno una siesta su quel pianerottolo. Così le chiedo: “C’è un'altra strada per andar dentro?”  c’è una scorciatoia?ci sono vie alternative per superare questo blocco? Sono quasi sicura mi stia per indicare una strada intricata o un campanello nascosto per suonare a un’infermiera che non aprirà mai. E invece è molto semplice: si passa di là. Basta non girare a sinistra ed andare nella sala giochi. Chi stai cercando? Il primario. Allora aspetta in sala giochi, là qualcuno verrà, prima o dopo.  Magari il primario stesso. La sala giochi è disordinata, ci sono tremila foglietti, disegni e cartelloni appesi, abbastanza per scacciare la noia attendendo che qualcuno passi di là…invece ne guardo a malapena uno che la signora, la mia Beatrice, entra di nuovo e mi indica una porta: “Quello è il suo studio, prova a bussare!”

Ed eccomi con un primario che se la ridacchia, perché sedendomi ho sbattuto contro la sua scrivania facendomi un male cane, con tanta curiosità quanto incoraggiamento verso questa mia “presa di posizione”, questo tentativo che faccio nel capire cosa sono e voglio essere. Vedo stanchezza nei suoi occhi, e la tenerezza di un nonno, alla fine della professione, che vede chi si affaccia appena a tutto il mondo che lui ben conosce. La media? Claudicante. Gli esami? Mi mancano i più importanti. Tesi? Boh, con calma.
L’ho detto sopra: non sono la studentessa brillantemodelloinvincibile. Ma non importa, sorride, si alza “Ti faccio vedere il reparto?” Scusi, non ho capito. Il reparto? La zona a sinistra, l’ala ovest della Bella e la Bestia?!!! Certo che voglio!!! Mi alzo a molla e prendo un’altra botta, sullo stesso posto della gamba e sullo stesso stipite di prima. Lui per fortuna non vede e non sente il mio ri-ouch.
Un’infermiera riccia esce da una stanza, saluto, e la ritroviamo poco dopo. Mi presenta, e lei non sa che faccia fare di fronte a una tirocinante volontaria: “La bruciamo fin da subito!” Dice in tono scherzoso ma non troppo al primario. Io abbozzo un sorriso comprensivo della sua perplessità, che è sicuramente quella di molti, di fronte alla mia volontà di cacciarmi nel reparto in cui la sofferenza dei bambini è ritenuta massima, dove muore chi meno dovrebbe, dove forse più si mette in discussione l’esistenza e la bontà di Dio, dove il coinvolgimento emotivo e la tristezza sembrano essere massimi. Che motivo ha un bambino innocente, candido, di ammalarsi di un male tremendo, vedere gli anni in cui dovrebbe danzare leggero come una farfalla costretto a letto, lottando per sopravvivere, quando invece la vita dentro di lui dovrebbe scoppiare come una stella che nasce? Come tollerare questo?
Il discorso qui si fa complesso. Ed è il motivo per cui ho solo sorriso all’infermiera e lo spiego solo se mi viene chiesto insistentemente: comunemente, si dà per scontato che la sofferenza si unica, universale, si spenda per tutti e allo stesso modo solo di fronte a talune scene, a certe situazioni “convenzionate”. Ma non tutti piangono o soffrono allo stesso modo di fronte alle immagini al tg di una guerra in Medio Oriente: il mio vicino di casa, che aveva combattuto la Seconda Guerra mondiale e era stato fatto prigioniero, non ne tollerava la vista e si allontanava dalla tv. Non tutti soffrono allo stesso modo vedendo un gatto investito per strada: chi non ne ha mai avuto uno, o non ama gli animali, può sentirsi meno coinvolto. Non tutti abbiamo le stesse esperienze di vita e la stessa sensibilità. Fortunatamente.
Io, personalmente, soffrirei molto di più in un reparto in cui sono ricoverati da chissà quanto dei poveri vecchietti, affetti da mille mila malattie, che si peggiorano l’una con l’altra, la lista di farmaci sulla cartella è infinita, e i dosaggi rivisti e riequilibrati anche più volte al giorno. E’ un vecchietto che spesso non sa più mangiare, da tempo convive con i suoi escrementi finchè qualche buon anima non gli cambia il pannolone, non può uscire a controllare l’orto o comprarsi il giornale, e ogni giorno in più che vive è un amaro confronto con i bei tempi andati e un’altra manciata d’ore che gli vengono date, in qualche modo, per fare … cosa? Soffrire? Sonnecchiare senza dignità, aspettando la fine del giorno, o dei giorni? Alcuni nemmeno si rendono conto di ESISTERE, la loro VITA li ha lasciati da tempo. Sono parenti, figli, e leggi confuse o del tutto inesistenti che nessuno si prende la briga di chiarire, che impediscono li lasciare queste persone al corso naturale degli eventi. L’incapacità del nostro mondo, della nostra epoca di definire cosa sia la vita, il declamare quanto sia importante e divina, per poi calpestarla nella sua essenza più vera. Cos’è la vita? Una valanga di giorni o un singolo sole inghiottito dal mare,  visto abbracciata alle colonne di un tempio greco? Uno sterminio di pioggie o un solo feroce temporale, che ti coglie nella foresta? Infiniti sonni o un’unica notte, con un cielo infinito disseminato di stelle splendenti?
Questi bambini sono come i fiori che si seminano in primavera. A volte si becca una stagione perfetta e crescono rigogliosi, profumatissimi e coloratissimi, uno spettacolo e una gioia per gli occhi. Altre volte capita un’inaspettata gelata, un fastidioso pidocchio, e la piantina china i suoi germogli, e si retrae. Ma contiene ancora in sé il potenziale fiore esplosivo e bellissimo, occorre curarla più delle altre, con prodotti specifici, e sperare che si riprenda. Poi darà il fiore più bello di tutti. E quando verrà l’inverno, saluterò il fiore, che a poco a poco appassirà, e per ogni petalo lo ringrazierò per essere stato così bello in estate.
Invece sembra che la tendenza sia di preservare il fiore durante l’inverno, contro natura, questo sarà raggrinzito, col capo chino, pallidi i petali e le foglie ingiallite, brutto, penoso. Ma non importa, basta avere il fiore nel vaso, d’inverno. Il fiore non tornerà alla primavera, perché tanto accanimento?
 
Attenzione, non fraintendetemi: non sto dicendo che i vecchietti vanno lasciati morire e che il medico interno è un lavoro insensato. Anzi. Ho grande stima di queste persone che accompagnano i nostri, sempre più numerosi nonni, proprio perché io non lo saprei fare: soffrirei e mi sentirei inadeguata, insoddisfatta.  Nel lavoro pediatrico trovo più motivazione e più grinta, vedo un valido motivo dove impegnare le mie energie e le mie speranze, sento che è in questo campo che c’è bisogno di me, senza nessun intento caritatevole, se non quello di fare quanto possibile e il meglio che il mio “lavoro” (le vecchiette mi dicono sempre “no l’è un lavoro l’è una mission!!! …. Quanta saggezza!) mi permette.
Sorrido all’infermiera, messa un po’ in subbuglio dalla mia presenza: è un sorriso che vuol dire “ sono già a mio agio”.
"Riempitevi di speranza, voi che entrate", significa quel grande divieto di accesso alla porta.

La speranza è come una bolla di sapone. Sii delicato, non stringerla troppo, potrebbe rompersi.

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